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Marcello Angelini racconta il suo Tulsa Ballet

Ventitré anni di direzione di un’impresa tutta privata

Di Elisabetta Ceron 28/02/2017
Marcello Angelini racconta il suo Tulsa Ballet
Marcello Angelini racconta il suo Tulsa Ballet

Sono trascorsi 23 anni da quando Marcello Angelini, napoletano, ha assunto la direzione del Tulsa Ballet in Oklahoma e molte cose sono cambiate per questo complesso che da realtà regionale con 24 elementi è diventato una compagnia di 38 danzatori  e con un bilancio  più che quadruplicato. Oggi è un esempio, laborioso, di risultati che parlano da soli: audizioni in tutto il mondo (oltre 1300 le domande d’ingresso collegate al suo quarto tour internazionale, la scorsa primavera, che ha toccato anche l’Italia); due scuole, due edifici, ambedue con teatri dedicati alla danza, due compagnie - senior e junior - due stagioni, un repertorio completo per tradizione e innovazione.

Dunque capacità e rispetto per il proprio mestiere sono stati preminenti per questo artista che oggi vanta anche il titolo di CEO, ovvero responsabile sia del versante artistico che di quello amministrativo. Alle spalle una formazione rigorosa impartitagli prima di tutto dal padre Arnaldo, suo mentore: “lui mi ha trasmesso l’attitudine di pensare alla professione superandone i tanti ostacoli quotidiani” e in seguito da Evgeny Polyakov che ha raggiunto da Napoli a Firenze debuttando al Maggio Musicale per poi approdare come Solista e Primo ballerino presso English National Ballet, Les Grands Ballets Canadiens, Ballet West, Deutsche Oper Berlin e Basel Ballet.

Quando però si parla di Italia emergono considerazioni di una carriera tutta realizzata all’estero: “Crescere in Italia mi ha dato il senso dell’estetica e della tridimensionalità della vita e delle arti. Il mio passato incide sul presente, ma il futuro mi è stato offerto dal resto del mondo con opportunità che purtroppo da voi non esistono”.

Un futuro che per la danza italiana è ancora incerto specie in termini di costi-ricavi-offerta; qui l’arte non sopravvive senza lo Stato. In America invece i complessi sono tutti privati, a cominciare dai colossi, l'American Ballet e il New York City Ballet.  

Angelini perché da noi non è possibile raggiungere questa indipendenza? 
E’ una questione di mentalità, mancanza di cultura imprenditoriale da parte dei gestori delle arti, reticenza a cambiare un sistema che, anche se chiaramente condannato all’estinzione, continua a fornire agiatezze alla classe dirigente e agli amministratori, e un sistema fiscale che non incoraggia a sostenere le arti con investimenti privati. Se ci fosse veramente voglia di cambiare, allora la gente ‘in charge’ avrebbe già contattato artisti italiani all’estero che sanno come modificare un sistema organizzativo e amministrativo in maniera tale che sia autonomo e ‘self-sustaining’.  

Il bilancio di questi quattro lustri al Tulsa. 
Ci sono stati momenti meravigliosi e terrificanti, dopo l'attentato alle torri gemelle, quando per più di un anno la gente ha smesso di andare in luoghi pubblici come i teatri. O nel 2008 dopo il crollo dell'economia. Ma con tanto lavoro, un po' di fortuna e concentrazione sulla qualità artistica siamo riusciti non solo a sopravvivere ma a crescere. 

I suoi prossimi assi nella manica?  
Abbiamo messo in conto tre nuove produzioni da un milione di dollari l’una. Qualche settimana fa c'è stata la prima mondiale del primo di questi lavori, Dorothy and the Prince of Oz, un balletto a serata intera ispirato al quattordicesimo libro della serie di OZ.  Nel 2018 ci sarà la prima americana di Strictly Gershwin di Derek Deane, anche questa una nostra produzione, poi un nuovo Schiaccianoci nel 2019 e altri progetti,  per ora ‘segreti’, per il 2019-2020. 

Lei punta sull’incremento della vostra impronta geografica e sull’ampliamento della compagnia. In Italia invece i corpi di ballo si ‘spengono’: che ricaduta hanno su di lei queste notizie? 
Purtroppo nessuna. Sapevo già 15 anni fa che, visto il modello economico insostenibile delle compagnie stabili italiane, le cose sarebbero finite così … l’ho già vissuto sulla mia pelle. Visti gli attori, il sistema adottato dalle compagnie stabili e la relazione sindacati/amministrazione, questo era l’unico esito prevedibile.  Oggi ogni fazione dà la colpa all'altra, i sindacati ai politici, gli artisti ai sovrintendenti e così via.  Ognuno è parte di questo disastro.  

Guardando ancora all’Italia: che artisti avremmo dovuto tenerci stretti? 
Non so. Tutti gli artisti onesti, con integrità, che mettono il successo delle arti avanti a quello personale. La vita è a "contratto determinato", non la si può passare facendo la lotta con i mulini a vento...

 

 

 

 

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